lunedì 23 marzo 2009

"CATARINA CUNZUMATI SEMU....!"

Nino Cinquemani “u russu” è una fonte inesauribile di ricordi, aneddoti, episodi di vissuto, semplici racconti che descrivono un mondo che in parte non esiste più. Un mondo, però, che anche lui ha conosciuto così come, ancora prima di lui, Giuseppe Di Vittorio di cui la Rai ha recentemente trasmesso una sintetica storia della sua vita. Squarci di una realtà cruda, violenta, di un mondo pieno di sopercherie, sfruttamento dell’uomo, diseguaglianze insopportabili ma nel contempo di reazioni ad una condizione ai limiti dell’umano. Un patrimonio utile alla conoscenza soprattutto del passato che, tuttavia, mantiene interamente la sua attualità. Rosa Balistreri, che conobbe miseria e sopercherie, durante la sua permanenza nella nostra città, ci cantava spesso una bellissima canzone che diceva così: ”Viri quant’è dura ‘a vita di lu zappaturi.…”
Oggi proponiamo un’ altro scritto di Nino. Un faro che illumina un aspetto della vita dei nostri contadini e che potremmo titolare: Il “sapere”, strumento della liberazione.
In uno dei lavori teatrali di Dario Fo è rimasta come una pietra miliare la frase: “L’operaio conosce trecento parole ed il padrone ne conosce mille. Per questo il padrone resta sempre padrone". Come a dire che l’operaio per potere diventare "padrone” di se stesso, della sua vita, dei suoi diritti, deve appropriarsi degli strumenti del sapere. Una grande verità che Nino in questa occasione ha così rappresentato.
Toti Costanzo

‘U FIGGHIU DU ZZU’ BASTIANU SINNI IU ‘A SCOLA!
(di Nino Cinquemani “u russu”)

Nell’ ‘800 anche dalle nostre parti le categorie agricole erano così formate : latifondisti, grossi proprietari, coltivatori diretti, mezzadri, giornalieri, annalori, stagliateri e consalora. Consalora erano quelli che dovevano coltivare 10.000 viti nell’arco dell’intero anno e per 4 volte. Se pensiamo che in un tumulo di terra si potevano coltivare 600 viti il conto è presto fatto: ogni consaloro coltivava un terreno esteso 16 tumuli e mezzo e cioè oltre 2 ettari di terreno e per quattro volte durante un anno e cioè oltre 80 mila mq. di terreno vitato. E come veniva pagato dal padrone? Gli toccava un litro di vino per ogni giornata lavorativa. E, dunque, un consaloro per potere sfamare la famiglia riceveva 365 litri di vino all’anno lavorando ogni giorno. E siccome capitava di non lavorare tutti i giorni e per ragioni diverse, quel che gli toccava alla fine dell’anno veniva scritto nel “quaderno degli analfabeti”.
Il “quaderno” altro non era se non una lunga canna di ferla (il tronco asciutto del finocchio selvatico che cresce ancora spontaneo nelle nostre zone) su cui venivano segnati in numeri romani i giorni lavorativi. Ora i numeri erano conosciuti soltanto dal padrone essendo i contadini assolutamente analfabeti ed allora appariva chiaro che chiunque, volendo, poteva imbrogliare per cui ai consalora il vino gli veniva dato, alla fine dell’anno, in una misura sempre inferiore al dovuto.
Un giorno certo zzù Bastianu che lavorava alle dipendenze di don Pitrinu, ebbe un forte sospetto e cioè che il padrone gli dava un quantitativo di vino inferiore a quello dovuto. Chiese spiegazioni a don Pitrinu contestando quanto inciso sulla ferla. Don Pitrinu, ovviamente, aveva il coltello dalla parte del manico e, per acquietarlo, così gli rispose: ”Bastianu carmati. I cunti sunnu giusti ma, comunque, per quest’anno facemu a come fici fici" nel senso di trovare un accordo bonario.
Ma Bastianu non fu convinto e arrivato in casa ancora col sacco sulle spalle, la ferla in mano e il fiasco di vino sostanzialmente vuoto, arrabbiato chiama la moglie e le dice: ”Domani non vado a lavorare. Vado a scrivere nostro figlio a scuola“.
Don Pitrinu, che come appare abbastanza evidente si arricchiva alle spalle dei suoi lavoratori e scialacquava nel senso che sfoggiava la sua ricchezza mantenendo un cocchiere, un cavallo ed una carrozza simbolo di opulenza , non era a conoscenza di quanto stava avvenendo. E infatti due anni dopo il figlio dù zzù Bastianu, che ora teneva il conto delle giornate lavorative essendo nella condizione di leggere la ferla ma anche di registrare tutto sul suo quaderno, si presentò insieme al padre per fare i conti dell’annata. Don Pitrinu anche questa volta tentò la formula di ‘u cu fici fici ma fu a questo punto che ‘u zzù Bastianu disse: ”Caro don Pitrini, sono due anni che mando mio figlio a scuola e ora stu cu fici fici per me non vale più E lei non mi può più prendere per fesso e dunque mi deve dare quel che mi spetta. Noi abbiamo scritto tutto nel quaderno e Salvatore sa anche leggere la ferla. Dunque lei mi deve dare questo e quello, così e così e se permette quest’anno il vino me lo bevo pure io e alla sua salute”.
Don Pitrinu abbianchiau ma di fronte alle prove concrete dovette fare buon viso e cattivo gioco.
Quando ‘u zzù Bastianu se ne andò, don Pitrinu con la testa tra le mani grida ad alta voce chiamando la moglie che era al piano superiore: “Catarina scinni, cunzumati semu.’U figgi du zzù Bastianu sinni iu puru iddu a scola e ora sapi fari i cunti".

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